CALIGOLA. UNDERDOG/UPSET


Regia e drammaturgia Jonathan Bertolai

Suono Hubert Westkemper

Luci Orlando Bolognesi

 

Fonico Luca Contini

Elementi scenici Rosanna Monti

Scenotecnica Giacomo Pecchia

Realizzazione video Diego Granzetti e Giovanni Adorni

Foto e grafica Manuela Giusto



Actors

Ian Gualdani

Director's notes

**English version coming soon***

Oggi Caligola abita solitario il regno del suo spirito malato, tanto sopraffatto dal peso di un lutto esistenziale da trascinare la sua vita verso l'abbandono dell'umanità.

Immaginario e realtà, ricordo e avvenire, logica e follia, si fondono rapsodicamente nella sua mente fratturata.

Confinato nel suo spazio mentale frammentato, sempre più rotto e logoro e distorto. Si trova riflesso infinitamente su se stesso e sui monitor, invaso dai suoni e dai suoi stessi pensieri.

Il corpo in scena diventa pancia, spasmodico, delirante, irrefrenabile, fino a quando non esaurisce l’energia. Finché non resta niente, nothing (per riprendere l’introduzione musicale).

Il non senso della vita… poiché Caligola non riprendendosi dalla perdita di Drusilla e trasformando quel lutto nel lutto stesso dell'esistenza, inizia un percorso distruttivo e autodistruttivo.

Una parabola destinata al fallimento poiché non basterà neppure la morte a spegnere il tormento del giovane.

La scoperta della morte, la perdita dell’amore, scatenano una metamorfosi in Caligola, una rinascita nel vuoto, insostenibile per un essere umano.  Il suo desiderio impossibile difatti diventa quello di uscire dalla condizione umana, dalla miseria dell’esistenza umana.

I canopi, le statuette che lo circondano sono bambini. Caligola ha perduto il rapporto con l’infanzia, con la vita vissuta nel presente, con il gioco, con la natura.  Aspetti di sé che tornano a visitarlo e che lui continua a distruggere.

 

Caligola non muore, o forse è già morto, o è ancora nel momento del trapasso. Ciò non cambia la sua sofferenza.”

                                                                              



Calendar

August 19—23, 2020
Sotterraneo S. Regolo, Orto Botanico
Lucca
September 12, 2020
Festival Opera Prima
Rovigo
July 10—11, 2021
Teatro San Girolamo
Lucca
September 07, 2021
Villa Stonorov-Fondazione Vivarelli
Pistoia
December 10, 2021
Officine Giovani
Prato
February 05—06, 2022
Teatro Biblioteca Quarticciolo
Roma
February 27, 2022
Teatro Civico
Vercelli
March 11, 2022
Teatro Mascagni
Chiusi

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Reviews

COMUNICATO STAMPA-DEBUTTO NAZIONALE XVI FESTIVAL OPERA PRIMA ROVIGO-12 Settembre 2020

Va in scena in debutto nazionale il 12 settembre per il Festival Opera Prima di Rovigo Caligola. Underdog/Upset, nuova produzione del Teatro Del Carretto, firmata per la prima volta da Jonathan Bertolai, già assistente alla regia di Maria Grazia Cipriani, artista della Compagnia fin dal 2006 e dal 2018 anche suo Presidente.

 

Sabato 12 settembre, alle ore 20.15, presso il Teatro Studio va in scena in debutto nazionale, per il Festival Opera Prima di Rovigo, Caligola. Underdog/Upset, regia e drammaturgia di Jonathan Bertolai, con Ian Gualdani, suono di Hubert Westkemper, luci di Orlando Bolognesi, fonico Luca Contini, elementi scenici Rosanna Monti e scenotecnica di Giacomo Pecchia. Una nuova produzione del Teatro Del Carretto, nato nel 1983 dall’incontro fra Maria Grazia Cipriani e Graziano Gregori, che con La Tempesta, affidata nel 2019 a Giacomo Vezzani e ora con questo nuovo spettacolo, vede la nascita di una nuova fase della Compagnia, che si apre al contributo registico di alcuni dei suoi artisti storici. Bertolai, già assistente di Maria Grazia Cipriani nel 2018 per Ultimo Chisciotte, è infatti interprete della Compagnia fin dal 2006, suo presidente dal 2018, e dal 2019 cura anche la rassegna di teatro d’autore Altre Visioni a Lucca.

 

Il desiderio che ha guidato lo studio e la drammaturgia di questo nuovo progetto nasce nella primavera 2019, ben prima della pandemia che ci ha colpiti, e ha trovato in questi mesi nuovi motivi di urgenza. La scelta di questo personaggio e dei suoi drammi interiori, trae origine dalla necessità di indagare il mondo giovanile con la sua fragilità e il disagio esistenziale nei confronti del futuro, temi, in particolare quest’ultimo, che ora si rivelano di ancora più scottante attualità, innestandosi in un panorama caratterizzato da un'incertezza globale in termini economici, politici e culturali, oltre che sanitari.

 

Così come Caligola voleva “semplicemente” la luna, anche al giorno d'oggi le nuove generazioni si scontrano con un mondo assurdo, nel quale devono conquistare il loro diritto di esistere e di emergere, a partire da un contesto a loro completamente sfavorevole. Devono combattere come se fossero su un ring, e, per continuare in questa metafora, come un pugile dato per sfavorito (underdog) a volte riescono con determinazione e follia a ribaltare i pronostici (upset).

Tenendo a mente la giovane età di Caligola, quando divenne imperatore e quando visse il lutto per l'amata sorella Drusilla, non è allora casuale il fascino esercitato da quest’opera sia sul giovane attore protagonista dello spettacolo – diplomato nel 2018 alla Scuola Teatro Arsenale di Milano-, sia su Jonathan Bertolai, al suo debutto da regista.

E’ proprio dal desiderio di Ian Gualdani di confrontarsi con Caligola che nasce questa messa in scena, e nello sguardo di Jonathan Bertolai assume i contorni di uno spazio mentale amplificato: sulla scena il pubblico assiste ad un dialogo interiore, un dipanarsi dei pensieri del protagonista che trovano la loro trasposizione visiva nella gestualità dell’attore.

Jonathan Bertolai ci racconta tutta l'assurdità che la vita può riservare, attraverso un dramma psicologico calato in un'atmosfera post industriale. Su una scena trapuntata di monitor e luci a neon, su cui si staglia un piedistallo e si schierano delle statuette, passano video e inserti sonori che richiamano gli anni '80 (ricordano ad esempio i video musicali dei Talking Heads) e scenografie che si ispirano alle opere multimediali di Bill Viola, creando una curiosa alternanza tra la tragicità dei temi trattati e il pop di questa estetica.

 

La molteplicità di suoni che si rincorrono nella sala e i contributi video che circondano il corpo dell'attore sono le mille voci del dissidio interiore di Caligola raccontati dalla notevole versatilità interpretativa di Ian Gualdani. La ricerca sonora di Hubert Westkemper - già sound designer di numerosi artisti internazionali di fama e del Teatro Del Carretto e premio Ubu 2005 e 2019 - rafforza l'alternanza fra il dissidio interiore e la freschezza dell'essere giovani.

 

Dice Jonathan Bertolai di questa nuova sfida: “È uno spettacolo che parla di questo tempo incerto che stiamo vivendo, un tempo che incede più velocemente della natura dell’uomo, costretto a rincorrere sé stesso, in una distanza ormai siderale. Caligola come noi fluttua smarrito nei meandri della sua mente cercando l’impossibile.”

Caligola: un atto di coraggio - PAC Paneacquaculture

Renzo Francabandera | 15 September 2020

Un festival vivo e partecipato, Opera Prima 2020, che abbiamo iniziato a testimoniare e dove abbiamo vissuto l’incontro quotidiano con la pratica dell’arte e il dialogo fra gli artisti e chi fruisce.

Il weekend nella giornata di sabato ha visto in scena Caligola la nuova produzione del Teatro del Carretto, firmata per la prima volta da Jonathan Bertolai, già assistente alla regia di Maria Grazia Cipriani, artista della Compagnia fin dal 2006 e dal 2018 anche suo presidente. Un atto di coraggio della compagnia che offre la possibilità di un altro codice interno, nato evidentemente nella pratica artistica del gruppo di lavoro ma capace di sviluppare una autonomia di linguaggio che comunque prospetta la possibilità per il gruppo di lavoro di una auspicabile coesistenza fra un sentimento registico di lungo corso e una pratica nuova, altra, che porta altra linfa.

 

Il progetto, liberamente ispirato a Caligola di Albert Camus, è nato nella primavera 2019, da alcuni appunti di lavoro di Ian Gualdani, che ne è interprete sotto la guida di Bertolai e dentro una macchina scenica assai composita, di rimandi a codici dell’arte contemporanea leggibili nei riferimenti ai grandi artisti della visual art, come Bill Viola, e che si avvale della pregevole collaborazione al suono di Hubert Westkemper e alle luci di Orlando Bolognesi.
Nell’allestimento, invero, il testo di Camus quasi scompare, per lasciare spazio a una azione molto fisica e affidata all’esuberanza di Gualdani, attore che rimanda alla fisicità performativa della nuova teatralità: un cyber-espressionismo quasi ginnico, costretto dentro una bardatura fisica che, pur preservando la corporeità quasi nuda, staturaria, da San Sebastiano, vive una narrazione del personaggio di spasmi e psicosi agite nel fisico.

 

Si tratta sicuramente di una composizione scenica elaborata, in cui confluiscono, come detto, stimoli e suggestioni diverse, ma che l’amalgama dello spazio teatrale prova a rendere coerenti.
Nello spazio piccolo e buio delimitato da un recinto di luci neon verticali e da monitor a fondo scena e in proscenio, l’impatto sovrastante del suono, delle immagini, dell’azione corporea sul fatto drammaturgico, se da un lato spiazza completamente rispetto all’ipotetica aspettativa sulla messa in scena del testo di Camus, dall’altro propone una lettura di physical theater sfidante e a suo modo originale. Si crea un riverbero fra l’azione dell’attore e il video che ne rappresenta, sul fondo, una proiezione psicologica, ora muta, ora parlante. Lo vediamo prima cercare di mettersi al mondo, di riportare in vita la statua del personaggio che fu, per poi cercare di addomesticare la sua malattia, la sua luna, per poi soccombervi. Lo spettatore viene travolto dalla dimensione angosciata e violenta di un soggetto fragile, dal sembiante efebico, ma capace di scatenare forze nere e psicotiche, in un delirio di solitudine ben sostenuto sia dalla pregevole e mai banale composizione sonora, che dai toni luminosi. Ci mette a confronto con un duale che non riconosciamo solo in scena ma che sentiamo essere specchio delle nostre inquietudini.
Seppure con qualche segno perfettibile nella componente video e nel rapporto fra gesto e ritmo assoluto della creazione, l’opera prima di Bertolai ha i connotati non solo dell’operazione coraggiosa ma anche del prodotto creativo tutt’altro che banale; è giusto attendersi nuove prossime manifestazioni che fortifichino, con la pratica, un’intenzione artistica che è molto bello che il Teatro del Carretto abbia deciso di sostenere.

(...)

Caligola @ Orto Botanico Lucca: il futuro in potenza del Teatro del Carretto - Gufetto.press

Susanna Pietrosanti | 21 August 2020

In anteprima nazionale va in scena, dal 19 al 23 agosto, a Lucca, presso il Giardino Botanico, il Caligoladel Teatro Del Carretto, per la regia di Jonathan Bertolai e, in solitaria performance, Ian Gualdani come unico protagonista. Lo spettacolo, inserito nel programma "La città si fa palcoscenico-frammenti di spettacoli dal vivo e workshop", è liberamente ispirato all'omonima opera di Albert Camus, lo spettacolo si veste di contemporaneità sulla strada di una maturazione della storica compagnia lucchese che ancora però deve completarsi.

Nella gabbia del palco sotterraneo in cui il protagonista agisce, convulso e doloroso, solo pochi lacerti, galleggianti come coriandoli, si colgono dal celebre originale di Albert Camus. La descrizione dell’arrivo della luna, che scivola sul giaciglio dell’imperatore che la ama per regalargli i suoi sorrisi. I dialoghi concitati dei cortigiani, interpretati dallo stesso Gualdani e rappresentati, con una modalità tipica dell’estetica del Carretto, da teste di bambolotti sorrette da piccoli basamenti classici, quasi canopi, potremmo dire. L’identità del simbolo apparenta i simulacri allo stesso corpo dell’attore, che nella prima scena troneggia, appunto, su un piedistallo più grande, e compone nella sua immobilità una statua classica resa infinitamente contemporanea dal lunare velo di nylon che lo avvolge e che solo più tardi si farà velo di Maya, amnio da cui nascere con sobbalzi violenti e contorsioni spasmodiche – e, in ultimo, un vapore bianco che reduplica l’aureola della luna, rinunciata alla fine dopo tanto desiderio. Desiderio e morte, per la luna e per Drusilla, la sorella amata e defunta, che non si può possedere: “non avrò la luna”, conclude amaro Caligola, riducendo a zero il suo impulso di conquista, calcolando zero il guadagno del suo immenso, tirannico potere, della sua nera, incontenibile spinta di vita e di morte.

Nessuno, certamente, può negare la forza sensuale e performativa del corpo di Gualdani, che abita e stravolge lo spazio bianco in una creazione infinitamente antimimetica, violenta, distorta, mettendo in vita la mostruosità di Caligola, la sua ineffabile diversità: basterebbero i movimenti convulsi, irregolari, sgraziati, volutamente parossistici come in un certo Fabre, evocato da sudore e dolore e liquidi corporei, o come in un certo Castellucci, alluso qui dalla lingua apparentemente trafitta nella tortura autoinflitta dello spiedino che evoca il colpo di lama della congiura. Basterebbe forse una sola sequenza, la testa rovesciata rivolta al proscenio con la bocca distorta che sovrasta occhi e fronte per parlare con sicurezza il linguaggio di un’estetica del diverso, del distorto, anche del brutto, indiscutibilmente forte ed efficace. Seppure, purtroppo, non ancora alle sue finali conclusioni.

Lo spettacolo testimonia infatti un evidente step di ripensamento della grammatica estetica della compagnia, della quale ritroviamo alcuni punti fermi: i cortigiani –canopi, per esempio, decapitati da Caligola in chiusura dello spettacolo: e la voce in registrato, classico stile Teatro del Carretto, sulla quale si inserisce, e si sovrappone e echeggia, la voce viva dell’attore. Ma con ogni evidenza il gruppo si protende verso una maturazione, o un’evoluzione, che porta qui l’inanellamento di molte suggestioni. Lo spazio scenico abitato da schermi di diverse dimensioni che trasmettono diverse inquadrature dell’attore mentre la musica pulsa forte e il corpo si muove frenetico parlano vivamente di una tipica situazione Motus. Il capitello classico che si apre e diventa pozzo e accoglie il corpo di Caligola che emerge solo col busto, pallido di cerone, evocano infinitamente immagini e simboli della visual art di Bill Viola. Il grande schermo che ci offre un punto di vista privilegiato sul volto dell’attore che però, in scena, ha tutta altra espressione e sviluppa una mimica diversa e contraria, richiama, senza equivoci, lo schermo-finestra dell’Orestea di Anagoor. Molte suggestioni giustapposte, interpretate con eleganza ed energia dal protagonista, intense, in grado di colpire e commuovere, ma non ancora in grado di costituire una nuova cifra estetica, che intravediamo e verso la quale la coraggiosa ricerca del gruppo si dirige. Positivamente, perché, se il testo è in lacerti, e la catena di immagini e di simboli è l’unica sulla quale possiamo contare – ecco, questi simboli devono essere folgoranti. Indiscutibili, inattesi, inimitabili. Il Teatro del Carretto ci ha abituati a questo genere di prodigio. Abbiamo tutti fiducia nella maturazione della loro nuova magia, il cui atto di nascita, forse, abbiamo testimoniato ieri sera, fortunati noi.

Le scoperte della XVI Edizione del Festival Opera Prima...- Krapp's Last Post

Francesco Guazzo | 17 September 2020

Gli ultimi giorni del Festival Opera Prima sembrano essere non altro che un’escalation verso un teatro sempre più riuscito e sempre più di valore, senza togliere nulla, con questo, al calibro dei lavori e dei momenti già vissuti sin dall’inizio di una settimana preziosissima vissuta come in un’oasi nella città di Rovigo.

L’atmosfera generale che si respira tra piazze e teatri è ormai sempre più comunitaria ed affiatata; ed è così che le prime novità arrivano con il nuovo lavoro del Teatro del Carretto, presentato sabato 12, “Caligola – underdog / upset”, un Caligola eccezionale da un lato per le scelte delle luci – anche se qualche schermo dal gusto analogico sfida il gusto di molti, facendo sentire un retrogusto al sapore di anni ’80 – ma soprattutto per l’eccezionale interpretazione di Ian Gualdani, solo in scena, che grazie ad un carattere tutto suo e peculiare è in grado di immergere gli spettatori negli incavi più reconditi e disturbanti dell’anomalia mentale e dello squilibrio psico-somatico, riesumando con ottime capacità attoriali il testo camusiano all’insegna di un contemporaneo un po’ kubrikiano illuminato al neon.

(...)

Caligola. Il Teatro del Carretto e il peso del dolore - Teatro e Critica

Simone Nebbia | 08 October 2020

Al debutto il Teatro del Carretto con un sorprendente Caligola, diretto da Jonathan Bertolai e con Ian Gualdani. Festival Opera Prima 2020 di Rovigo.

 

Diana mi consiglia di mettermi nel mezzo ma non troppo avanti, in cima alla gradinata, il posto adatto per vedere meglio. Era iniziato tutto poco prima: per trovare la sala avevo camminato la città con una meta poco chiara nella testa, quando ho chiesto informazioni a un passante per dove fosse il teatro mi ha indicato quello che secondo lui era, da sempre, il Teatro del Learning; e poco importa che il Teatro Studio da 12 anni prenda nome dal Teatro del Lemming, perché il necessario per l’abitante di Rovigo era riconoscere che un teatro, quel teatro, ci fosse. E forse, learning, è pure la parola giusta. L’ora del buio avvolge la sala, dopo che si sia riempita, proprio quando inizia la libera riscrittura del Caligola di Albert Camus che Jonathan Bertolai, alla sua prima regia per il Teatro del Carretto di cui è componente ormai storico, ha disegnato sul corpo di Ian Gualdani per il debutto al Festival Opera Prima 2020.

 

Su un piedistallo poggiato a un basamento, l’idea marmorea che accompagna l’opera si manifesta lucida e imponente, a tal punto raffinata da esplicitare il contrasto con il materiale di plastica povera da imballaggio che involge, quasi lega, Caligola e la sua storia di violenza, del tradito e represso amore: è un velo che è insieme tomba e placenta, gabbia e liberazione. Il corpo d’attore penetra il tessuto sonoro imbastito da Hubert Westkemper, storico collaboratore di molte opere della compagnia, che imbraccia la solitudine di Caligola come un’arma, disponendone i segni fin dov’è il confine con la mostruosità; a tanto si spinge l’opera musicale che soggiace alla partitura di movimento e alla drammaturgia ordite da Bertolai: una matassa di suoni ora stridenti e voraci, ora più evocativi e ribollenti come di lava, di sangue, nella luce rossa di un martirio, si affollano attorno al corpo che si dimena, forse per costringerlo, forse, per liberarlo; come si potesse davvero.

 

Nell’oscurità dell’animo di Caligola sono mescolate, nella regia di Bertolai, azione ed intenzione, compresse nel corpo reattivo, saettante di Gualdani; la luce firmata da Orlando Bolognesi indaga le sue forme con violenza, fin quasi ad apparire un assedio. Gli schermi riproducono immagini disturbate o criptate dello stesso Caligola, sono video-specchi che ne amplificano il pensiero, esaltazioni della sua esaltazione, come a voler esprimere la disperata rifrazione della sua psiche; è in tale contesto scenico che prende forma, vita, la suggestione lunare tanto cara al personaggio di Camus, la cui parvenza apparente in risalto sulla plastica è un tenero emblema di felicità impossibile; lontana, l’evocazione lunare, vive in un vincolo con il pozzo suo contraltare, perché possa Caligola misurare la sua solitudine alla voragine dell’eternità, la luna all’immagine riflessa nell’acqua oscura.

 

La regia di Bertolai, coraggioso a debuttare con un testo così difficile, magnetico e incandescente, offre uno spettacolo di carattere, organico ed equilibrato sia nella padronanza atletica che nella cura con cui relaziona l’attore alle altre dimensioni semantiche, soltanto eccedendo nella vulnerabilità di alcune scelte estetiche lasciate in carico alla verve performativa di Gualdani; la sua ricerca non si concentra, come si potrebbe pensare, sul rapporto tra Caligola e il potere, ma affonda in una profondità più essenziale, non esteriore ma intima, penetrata nelle viscere del personaggio. L’intuizione di ragionare, attraverso il teatro, sulla fragilità della condizione giovanile, riverbera nel contrasto tra il disagio evidenziato nella concretezza fisica e le proiezioni future espresse nella deformazione del riflesso.

E infine cosa resta di Caligola nelle piccole statue di neonati a mezzo busto, emblemi della solenne brama giovanile di farsi da sé stesso storia? Sono esse in dialogo con la sua fanciullesca e limpida cattiveria e finiranno decapitate, evirate del pensiero in fasce, uccise prima ancora di diventare qualcosa. È lo stesso Caligola a dire: “Io non sto bene che con i miei morti”, così che gli altri personaggi non sono altro da apparizioni pendenti nella sua vicenda, senza avere un’identità definita. Caligola, giovane che si nega vecchio, si stringe nella sua vecchia pelle, una memoria mordente che reclama attenzione non più rimandabile, una realtà impossibile in cui vivere è un atto estremo di disequilibrio, senza più certezze se non il peso del dolore: “Non si può vivere in un mondo in cui la più folle fantasia può insinuarsi nella realtà”.

Il sorprendente "Caligola" di Bertolai

Mariapia Frigerio- Avvenire | 13 July 2021

Teatro del Carretto di Lucca, gloria locale e internazionale, fondato da Maria Grazia Cipriani e Graziano Gregori e attivo da oltre quarant’anni quale intelligente alternativa al teatro di parola, propone la sua ultima produzione, Caligola. Underdog/Upset, liberamente ispirato al testo di Camus, con Jonathan Bertolai, già attore e assistente alla regia della Cipriani in Ultimo Chisciotte, qui al suo debutto da regista.

In scena Ian Gualdani è un Caligola non solo “folle”, ma uomo che vive un dramma percepito dallo spettatore attraverso dialoghi interiori e gestualità ed è, al contempo, la voce dei vari cortigiani che sono, cifra tipica di questa Compagnia, teste di bambole, canopi. La ricerca dell’impossibile segna l’inizio e la fine di questa rappresentazione, con la luna che s’ingigantisce su un grande monitor alle spalle dell’attore. «No, non avrò la luna», bisbiglia sommesso alla fine Caligola, in un rantolo di disperata solitudine. Perché la solitudine e l’assurdo sono temi costanti della poetica di Camus che ne fanno un autore di indiscussa attualità (si pensi alla rilettura della “sua” Peste in quest’epoca di pandemia) e il Caligula, nelle sue diverse versioni, è la dimostrazione del suo attaccamento a questo dramma che non è una tragedia storica, ma esistenziale. Memorabile il caso di Carmelo Bene che riesce a ottenere da Camus i diritti di rappresentare la sua opera, diritti negati ad altri. È il ’59: l’esordiente Bene è uno sconosciuto ventiduenne che debutta al Teatro delle Arti di Roma con la regia di un altro giovane, Alberto Ruggiero. Nel 2004, la messa in scena di Claudio Longhi e Franco Branciaroli, vede, al contrario, un Branciaroli-Caligola “vecchio”. Ian Gualdani è invece giovane, come l’imperatore, come Bene e per questo più adatto a indagare un mondo giovanile di fragilità, disagi esistenziali, paura del futuro, in lotta – la metafora del ring nel titolo – per conquistare il diritto di esistere. Gualdani dà voce, ma soprattutto corpo, al non senso della vita. Dal lutto per la prematura morte di Drusilla, amatissima sorella-amante, prende il via in Caligola un percorso distruttivo e autodistruttivo, quello di una mente malata in cui coesistono, alternate, logica e follia. Caligola è accecato dall’odio e dal rancore verso l’ingiustizia di un mondo governato dal caso, dove gli dei non esistono, perché «gli uomini muoiono e non sono felici».

Un mondo assurdo a cui Caligola cerca disperatamente di ribellarsi. Per cui uccide cortigiani e si farà uccidere, consapevole, dai congiurati, perché questa resta per Camus la «tragedia dell’intelligenza».

Gualdani è un Caligola tormentato in uno spazio bianco accecante, tra voci registrate e monitor che ripropongono il disordine mentale di un uomo senza più connotazioni temporali che ha un fortissimo impatto sul pubblico e lo sconvolge. Di certo il suo Caligola sarebbe piaciuto al grande Carmelo e questo vuole essere un complimento sia all’attore che al suo regista. 

L'imperatore Marilyn Manson

Simona Frigerio- In The Net | 16 July 2021

Gaio vive per la rovina sua e di tutti; io educo una vipera per il popolo romano, un Fetonte per il mondo”, così racconta lo storico Svetonio che l’Imperatore Tiberio – a sua volta, non certo un ‘santo’ – giudicasse il futuro erede, Caligola. 

Il mio regno, a tutt’oggi, è stato troppo felice. Né una religione crudele; né una pestilenza universale e neanche un colpo di Stato; insomma, niente che possa tramandarlo alla posterità. E un po’ anche per questo […] mi sostituisco io alla peste”, così Caligola si presenta nelle vesti grandiose e crudeli, con le quali lo ammanta la penna insieme poetica e filosofica di Albert Camus. 

Di fronte a tali sublimi abissi, a una brama di vita che si sazia solamente con la morte di chiunque lo circondi e l’annientamento finale di se stesso, Jonathan Bertolai – senza timori reverenziali, senza concessioni al buon gusto borghese ma dimostrando, al contrario, quella libertà ideologica ed estetica che un artista deve possedere – mette in scena (grazie al corpo scabrosamente autentico e all’estro talentuoso di Ian Gualdani) un Caligola che prosciuga mito e testo per restituirci l’impudica ossessione dell’uomo/dio non tanto per Drusilla ma per quella stessa Luna, che è insieme simbolo incestuoso e aspirazione all’assoluto, a cui agogna il giovane Imperatore conscio di essere predestinato al disastro.
Con una cifra stilistica ben delineata – dove si nota la matrice del Carretto traslata però in visione personale – Bertolai attinge a vari linguaggi – dalla danza alla musica, dall’iconografia pop-rock à la Manson alle video-installazioni, dal teatro di figura alla recitazione – per creare uno spettacolo che (e scusate il parallelismo ma, visto che vi abbiamo assistito in serata di finale degli Europei, ci pare calzante), dopo due minuti, suscita questa domanda: “Dove vorrà andare a parare?”.
E questo, nel teatro di oggi, è il più grande complimento che si possa fare a un regista. Per una volta, soprattutto nel magnifico Teatro del Giglio di Lucca (troppo spesso soffocato da personaggi televisivi e nomi di botteghino), ecco che la tradizione – quella a cui dovrebbe ispirarsi proprio il Giglio per sua mission – il testo del Nobel per la Letteratura Albert Camus, si fa carne e sangue per un palcoscenico contemporaneo: svecchiato, depurato, reso nuovamente tagliente e profetico, abissale e utopistico.
Del resto, il Teatro del Carretto è ormai tradizione e occorrerebbe che, in primis, lo capissero coloro che il teatro lo vedono per il loro lavoro – ossia critici e organizzatori. In questa Italietta ancorata a generi e categorie, dove la tendenza è incasellare inventando sempre nuovi termini (fin dai tempi di nuovo teatro, post-avanguardia, e così via), occorre riconoscere che una Compagnia che lavora da quarant’anni su un preciso territorio, costruendo un percorso stilistico, estetico e di contenuti riconosciuto e plaudito in tutto il mondo (con personale alla Biennale Teatro di Venezia nel 2017) dovrebbe essere la (articolo determinativo) Compagnia della ‘tradizione lucchese’. Perché Shakespeare, signori, è considerato da noi un classico, ma a suo tempo fu tutt’altro: fu ricerca e sperimentazione e fare teatro di tradizione non significa riproporre Shakespeare (o Molière o Racine) con le incrostazioni matattatoriali delle compagnie di giro dell’Ottocento, o dei primi decenni del secolo breve, bensì rileggerlo con gli occhi di oggi – tra Covid e crisi economica, tra cellulari che sostituiscono la visione e compartecipazione diretta (anche a teatro) e reality fasulli come monete da 3 euro.
Detto questo, forse una piccola ingenuità l’abbiamo rilevata. Quando Caligola usa varie ‘vocine’ per dare la parola ai cortigiani, si sarebbe potuto optare per altro – come fece, ad esempio, Maria Grazia Cipriani (regista e fondatrice del Carretto), con gli dei dell’Iliade, che usò le voci peevish dei bambini di un asilo.
Uno spettacolo che si spera torni con la Stagione autunnale, anche a Lucca, in serate meno calcistiche.

"Caligola". L'insensata cupezza del presente distillata da un angelo ribelle

Gabriele Rizza - Il Manifesto | 31 July 2021

Posseduto da demoni feroci Caligola alberga, con forsennata inquietudine, il piedistallo della sua caduta. Freme. Brucia. Combatte. Si dimena. Striscia, si inarca, salta, cade e si rialza, si libra in aria. Balza e rimbalza con voluttuosa, siderale energia. Angelo ribelle, catapultato sul palcoscenico della contemporaneità, visivamente figlio di quel «rinascimento elettronico» istruito da Bill Viola (alieno però dai suoi languori), il Caligola di Ian Gualdani cavalca l’immaginario di un mondo futuribile, invaso dalla tecnologia, percorso da un delirio multimediale quanto fisicamente onnivoro. Prodotto dal Teatro del Carretto, scritto e diretto da Jonathan Bertolai, alla sua prima regia per la compagnia lucchese di cui è storico componente, solo nel nome imparentato con Albert Camus, questo novello Caligola distilla, in solitaria ebbrezza, tutta l’insensata cupezza dei tempi di cui siamo vittime e carnefici.

 

Voce aliena il Caligola di Gualdani, a vita nuova restituito dopo essersi liberato da una matassa appiccicosa di plastica che come placenta lo avvolgeva, intona una partitura che è prima di tutto una coreografia mentale. Caligola è ora una particella smarrita nella globale dispersione di senso che tutti ci attanaglia. Gualdani consegna al suo Caligola, oltre la fragilità del personaggio, oltre l’assurdo, il disagio esistenziale, la solitudine e la implacabile perdita di equilibrio di cui intuisce l’eco, una dimensione fantascientifica, proiettando su di esso, grazie anche ai contributi di Orlando Bolognesi per le luci, di Diego Granzetti e Giovanni Adorni per i monitor e le immagini video e di Hubert Westkemper per la raffinata intelaiatura sonora, le ombre di un futuro sempre più gravato di disumanizzazione e minacce.

"Desta un incanto che va oltre ogni misura (...)

Susanna Battisti- FOGLI E PAROLE D'ARTE | 22 February 2022

Desta un incanto che va oltre ogni misura, l'ultimo spettacolo del Teatro del Carretto, diretto da Jonathan Bertolai e incarnato dallo straordinario Ian Gualdani.

Caligola, underdog/upset è tratto dal Caligola di Albert Camus che costò all'autore franco-algerino venti anni di rielaborazione (dal 1937 al 1958) con numerose e importanti edizioni teatrali. In esso l'imperatore mima la parte di un sovrano tirannico e feroce nel momento in cui ogni spessore di senso si è ritratto oscuramente dal mondo.

Il testo moderno sintetizza e rielabora il dramma camusiano in un monologo a più voci con battute dette fuori scena e ripetute dall'attore, come per rimarcare la doppiezza di Caligola, diviso tra una folle brama di potere e la lucida coscienza dell'assurdità della vita.

Le sofferenze del personaggio vengono raccontate dai movimenti dell'attore, introducendo in questo modo un elemento di metateatro nella pièce, dove prevale una drammaturgia visiva e performativa, arricchita dalle suggestive musiche di Hubert Westkemper.

Questo spettacolo rappresenta un mondo interiore dove tutto è già accaduto e tutto riaccade adesso. La scena è occupata da un piedistallo bianco verso la destra, un grande schermo al centro e, ai lati e sullo sfondo, due coppie di televisori di dimensioni diverse, sistemati uno affianco all'altro. Una fila di bambolotti bianchi occupa l'avanscena. Tubi di luce al neon si alternano sulle tre pareti dello spazio scenico. Le luci di Orlando Bolognesi passano da una oscurità inquietante a un biancore raggelante, con incursioni di rosso ematico quando vengono nominati spargimenti di sangue.

All'inizio appare di spalle il corpo del giovane Caligola, protetto da tutori bianchi per gomiti e ginocchia. Un corpo statuario che tiene disteso sulle braccia aperte una sorta di lungo velo bianco. E' l'immagine dell'Imperatore che tiene in braccio il cadavere di Drusilla, la sorella di cui è incestuosamente innamorato. Dopo la morte di lei, amata con passione vorace, la vita comincia a perdere senso. "Come si può restare con le mani vuote, quando prima stringevo l'intera speranza delmondo?”. Dopo questa scena breve ma struggente, Caligola cade dal piedistallo e si avvolge alla meglio dentro un telo di plastica. E' la tomba e il feto dal quale si libera per rinascere e tentare di mettere ordine nella sua mente frammentata. Cammina male, come un bambino sul punto di cadere. Agguanta i bambolotti e li decapita uno dopo l'altro, nel corso della pièce. Distrugge il ricordo della sua infanzia con la stessa violenza con cui uccide l'altro da sé. "Lui vuole toglierci la vita" si sente dire da una voce fuori scena. Ma Caligola, pur nel pieno dei suoi poteri, si strascina per terra appoggiando le braccia su piccole stampelle. Questa è il fulcro della sua personalità bipolare.

Dice di fare "le veci della peste" ma, allo stesso tempo, è fragile. Desidera la luna che appare in tutta la sua pienezza sullo schermo al centro. La luna è l'impossibile, un qualcosa "che non sia di questomondo", privo di scopi e di motivi per abitarlo.

Gradualmente il corpo dell'attore riprende forza e si contorce in una sorta di coreografia di movimenti violenti, acrobatici e più o meno veloci, che danno forma scenica ai suoi dissidi interiori. Le luci amplificano la bellezza del corpo agilissimo e flessuoso del performer, ne demarcano i contorni, ne esaltano il pallore che contrasta con tagli di luce più scuri. I video moltiplicano le immagini delle espressioni facciali dell'attore mentre si impegna in una rapsodia di dialoghi con se stesso o con i senatori che, ovviamente, compaiono solo nella sua mente.

Caligola viene presentato anche come amante del bello. Alcune fonti, del resto, parlano della sua passione per il teatro.

A un certo punto invita tutti a una "conferenza artistica" e promette la decapitazione a coloro che non la seguiranno. Ed ecco che sugli schermi appare una rosa, simbolo della bellezza. Una bellezza che tuttavia non basta a lenire il suo dolore e le sue infinite sofferenze. E' un uomo molto solo che quando sta con gli altri, si sente circondato dal vuoto. "Io non sto bene checon i miei morti".

Quello di Gualdani/Caligola è un rito sacrificale laico che intende comunicare al pubblico non soltanto l'assenza di valori e l'assurdità di un mondo dove gli esseri umani corrono appresso a una tecnologia che rischia di azzerare il pensiero critico, ma anche la difficoltà degli artisti e, soprattutto, dei teatranti di riemergere da una stasi causata non soltanto dalla pandemia.