In anteprima nazionale va in scena, dal 19 al 23 agosto, a Lucca, presso il Giardino Botanico, il Caligoladel Teatro Del Carretto, per la regia di Jonathan Bertolai e, in solitaria performance, Ian Gualdani come unico protagonista. Lo spettacolo, inserito nel programma "La città si fa palcoscenico-frammenti di spettacoli dal vivo e workshop", è liberamente ispirato all'omonima opera di Albert Camus, lo spettacolo si veste di contemporaneità sulla strada di una maturazione della storica compagnia lucchese che ancora però deve completarsi.
Nella gabbia del palco sotterraneo in cui il protagonista agisce, convulso e doloroso, solo pochi lacerti, galleggianti come coriandoli, si colgono dal celebre originale di Albert Camus. La descrizione dell’arrivo della luna, che scivola sul giaciglio dell’imperatore che la ama per regalargli i suoi sorrisi. I dialoghi concitati dei cortigiani, interpretati dallo stesso Gualdani e rappresentati, con una modalità tipica dell’estetica del Carretto, da teste di bambolotti sorrette da piccoli basamenti classici, quasi canopi, potremmo dire. L’identità del simbolo apparenta i simulacri allo stesso corpo dell’attore, che nella prima scena troneggia, appunto, su un piedistallo più grande, e compone nella sua immobilità una statua classica resa infinitamente contemporanea dal lunare velo di nylon che lo avvolge e che solo più tardi si farà velo di Maya, amnio da cui nascere con sobbalzi violenti e contorsioni spasmodiche – e, in ultimo, un vapore bianco che reduplica l’aureola della luna, rinunciata alla fine dopo tanto desiderio. Desiderio e morte, per la luna e per Drusilla, la sorella amata e defunta, che non si può possedere: “non avrò la luna”, conclude amaro Caligola, riducendo a zero il suo impulso di conquista, calcolando zero il guadagno del suo immenso, tirannico potere, della sua nera, incontenibile spinta di vita e di morte.
Nessuno, certamente, può negare la forza sensuale e performativa del corpo di Gualdani, che abita e stravolge lo spazio bianco in una creazione infinitamente antimimetica, violenta, distorta, mettendo in vita la mostruosità di Caligola, la sua ineffabile diversità: basterebbero i movimenti convulsi, irregolari, sgraziati, volutamente parossistici come in un certo Fabre, evocato da sudore e dolore e liquidi corporei, o come in un certo Castellucci, alluso qui dalla lingua apparentemente trafitta nella tortura autoinflitta dello spiedino che evoca il colpo di lama della congiura. Basterebbe forse una sola sequenza, la testa rovesciata rivolta al proscenio con la bocca distorta che sovrasta occhi e fronte per parlare con sicurezza il linguaggio di un’estetica del diverso, del distorto, anche del brutto, indiscutibilmente forte ed efficace. Seppure, purtroppo, non ancora alle sue finali conclusioni.
Lo spettacolo testimonia infatti un evidente step di ripensamento della grammatica estetica della compagnia, della quale ritroviamo alcuni punti fermi: i cortigiani –canopi, per esempio, decapitati da Caligola in chiusura dello spettacolo: e la voce in registrato, classico stile Teatro del Carretto, sulla quale si inserisce, e si sovrappone e echeggia, la voce viva dell’attore. Ma con ogni evidenza il gruppo si protende verso una maturazione, o un’evoluzione, che porta qui l’inanellamento di molte suggestioni. Lo spazio scenico abitato da schermi di diverse dimensioni che trasmettono diverse inquadrature dell’attore mentre la musica pulsa forte e il corpo si muove frenetico parlano vivamente di una tipica situazione Motus. Il capitello classico che si apre e diventa pozzo e accoglie il corpo di Caligola che emerge solo col busto, pallido di cerone, evocano infinitamente immagini e simboli della visual art di Bill Viola. Il grande schermo che ci offre un punto di vista privilegiato sul volto dell’attore che però, in scena, ha tutta altra espressione e sviluppa una mimica diversa e contraria, richiama, senza equivoci, lo schermo-finestra dell’Orestea di Anagoor. Molte suggestioni giustapposte, interpretate con eleganza ed energia dal protagonista, intense, in grado di colpire e commuovere, ma non ancora in grado di costituire una nuova cifra estetica, che intravediamo e verso la quale la coraggiosa ricerca del gruppo si dirige. Positivamente, perché, se il testo è in lacerti, e la catena di immagini e di simboli è l’unica sulla quale possiamo contare – ecco, questi simboli devono essere folgoranti. Indiscutibili, inattesi, inimitabili. Il Teatro del Carretto ci ha abituati a questo genere di prodigio. Abbiamo tutti fiducia nella maturazione della loro nuova magia, il cui atto di nascita, forse, abbiamo testimoniato ieri sera, fortunati noi.