Il passato nel presente. Triumphs and Laments di William Kentridge nella lettura di Salvatore Settis (passando per un’Iliade teatrale)
Leggendo Incursioni, recente quanto corposo volume di Salvatore Settis, mi è tornato in mente, per un personale percorso di associazioni, il potente allestimento dell’Iliade messo in scena dal Teatro Del Carretto, per l’adattamento e la regia di Maria Grazia Cipriani. Non so se lo studioso conosca e apprezzi il lavoro della compagnia toscana e, in particolare, la rilettura dell’Iliade. Tuttavia, non è questo il punto, non è questo l’aspetto importante. Il mio libero quanto arbitrario accostamento, pur non avendo nulla di filologicamente fondato, ha preso forma dalle riflessioni sulla memoria culturale sollecitate dal testo di Settis. Tema presente, a mio parere, pur nelle evidenti diversità, nella ricerca del gruppo teatrale di Lucca. Il rapporto di continuità nelle arti con la memoria dell’antico, con il passato, con la tradizione – intesa nell’accezione etimologica del termine – è una sorta di fil rouge che ha guidato, con coerenza, la ricerca di Settis riverberandosi, anche, nelle pagine del libro.
Tra gli spunti di Incursioni vi è la convinzione, che tra ‘antico’ e ‘contemporaneo’ non c’è netta frattura, ma una perpetua tensione, che continuamente si riarticola nel fluire dei linguaggi critici e del gusto, nei meccanismi di mercato, nel funzionamento delle istituzioni, nella “cultura popolare”. Un’affermazione pregna di sfumature, aperta a molteplici livelli di lettura, che meriterebbe una giornata di studi. Tuttavia, per tornare al libro, l’autore evidenzia come, nonostante questa continuità, l’età contemporanea, spesso, attui una sorta di tabula rasa con il passato negando, a favore del cambiamento dei sistemi di rappresentazione, quel fluire ininterrotto di una tradizione che si rinnova nel presente.
Settis ribalta, dunque, quello che è un uso riduttivo del termine ‘tradizione’, sinonimo, sovente, di una consuetudine normalizzante, cui si sostituisce, come contraltare, l’originalità della novità e della rottura a tutti i costi. Un’opinione corrente a cui lo studioso si oppone sostenendo come la tradizione sia, al contrario, trasmissione dei saperi tramandata nei secoli, e che, come tale, abbia prodotto non immobilità ma cambiamento, generando, come ho già citato, quella “perpetua tensione che continuamente si riarticola nel fluire dei linguaggi critici e del gusto” (Incursioni, alla pagina 11). Una tensione che ritrovo, per tornare alla mia digressione iniziale, nell’adattamento dell’Iliade, pretesto del mio ragionamento a partire dal libro di Settis.
La mise en scène del Teatro Del Carretto esprime, stabilisce, persegue un rapporto con la memoria del passato inteso non come un nostalgico vagheggiamento di un tempo ormai perduto, ma come consapevolezza del presente. Un presente volto a coniugare il mito, la memoria, l’antropologia culturale, il ricordo personale, con la storia. La riscrittura proposta dalla compagnia di Lucca, eco lontana del grande poema epico, è centrata sul confronto tra la tragicità propria della condizione umana e la natura sovrumana degli dei. Una condizione di lontananza dagli dei che relega l’uomo in una dimensione terrena e finita.
Una situazione evidenziata dalla Compagnia toscana che attinge al crogiolo del mito sedimentato attraverso i secoli nell’immaginario collettivo degli occidentali. Una rappresentazione dal forte tasso evocativo che, tuttavia, mai diviene vernacolo. Ciò grazie, anche, all’ideazione di uno spazio scenico potente ed essenziale che suggerisce, per l’originalità e l’intelligenza creativa del suo autore Graziano Gregori, un’idea di antica terribilità. Una scena abitata da soli uomini e dei, resi sia in carne ed ossa sia da ‘attori artificiali’ che, in un avvincente tessuto fitto di fonti dirette e indirette, include, anche, le avanguardie storiche del primo Novecento. Iliade, quindi, può ritenersi un esempio mirabile di quella capacità di coniugare e tramandare, pur attraverso la creazione di un universo immaginifico ma non destorificato, le fonti della nostra cultura con l’urgenza del presente. Il passato, dunque, non è un calco, sembra ricordarci il Teatro Del Carretto la cui ricerca, nel suo rinnovarsi, attinge alle fonti del passato, nutrendo l’attualità del nostro tempo.
Analogamente a quanto ci dice, pur se mediante percorsi diversi, William Kentridge attraverso Triumphs and Laments, il grande fregio allestito, a Roma, sugli argini del Tevere, certamente tra le più significative opere di arte urbana del nostro tempo. Ma le riflessioni legate alla memoria culturale inducono a un’altra considerazione: la memoria, è noto, è anche memoria selettiva e come tale implica, necessariamente, uno stretto rapporto con l’oblio sia sul piano del ricordo personale, sia su quello della memoria sociale (Assmann [1999] 2002).
La memoria e l’oblio, quindi, per parafrasare Wisława Szymborska, sono, “una coppia ben assortita” (Szymborska 2012). Non si tratta di stabilire, pertanto, quanto passato sia racchiuso nell’opera di un autore, quanto piuttosto ‘quale passato’ sia racchiuso in un’opera. L’eredità di quello che si definisce genericamente come ‘l’antico’ non è sempre presente in maniera permanente e simultanea nella coscienza personale e in quella collettiva; ciò significa affrontare il rapporto con il tempo della storia e con la selezione delle fonti.
L’individuazione, la selezione e la costruzione delle fonti sono alla base del complesso, quanto accurato, lavoro di Kentridge. Triumphs and Laments è espressione incontestabile di come storia e filologia diventino sia nella prassi artistica sia nella prospettiva storiografica, una sorta di stella polare come conferma la lettura che ne fa Settis in Incursioni, dalle cui pagine affiorano temi e categorie centrali nella teoria critica del Novecento e dei nostri giorni (Assmann [1999] 2002; Benjamin [1934] 1973; Bloom [1994] 2000; Bourriaud [1998] 2010; Bürger [1974] 1990; Danto [1992] 2010; Lyotard [1979] 1991).
Incursioni ha, dunque, colpito nel segno avviando una fitta serie di ragionamenti destinata, probabilmente, a farsi, a divenire, sistema. E in ciò risiede la forza, l’impatto di questo prezioso volume, come confermano le molte e avvincenti finestre tematiche che si aprono a partire dalla lettura del fregio realizzato da William Kentridge sui muraglioni del Tevere. Non ripercorrerò su queste pagine le vicende, le caratteristiche, l’ampio apparato iconografico e iconologico ricostruito con accuratezza filologica da Settis e che di per sé costituiscono un esempio di metodo applicato agli studi storici di arte contemporanea. Mi interessa, invece, evidenziare alcuni aspetti importanti che, a partire dal fregio, aprono una vasta gamma di implicazioni. Prenderò in considerazione proprio le pagine finali del saggio dove l’autore inserendo l’opera in un più ampio contesto internazionale che spazia dai murales alla street art, dall’installazione all’arte pubblica propone un’apparente deviazione dall’intervento ‘romano’ del grande artista sudafricano citando un passo da Monumenti di Robert Musil:
[…] la cosa più strana dei monumenti è che non si notano affatto. Nulla al mondo è più invisibile. Non c’è dubbio che essi sono fatti per esser visti, anzi per attirare l’attenzione; ma nello stesso tempo hanno qualcosa che li rende, per così dire, impermeabili, e l’attenzione vi scorre sopra come le gocce d’acqua su un impermeabile, senza arrestarsi un istante […]. Per farsi notare, insomma i monumenti dovrebbero darsi da fare come tutti noi (Incursioni, alla pagina 335).
Sparigliando le carte, Settis ci distoglie da Kentridge e dal suo intervento di arte urbana per affrontare, con la complicità del grande scrittore, alcuni nodi irrisolti, eppur urgenti, di molte città contemporanee e di Roma in particolare. Ma la divagazione dello studioso è, infatti, soltanto apparente perché non solo ci riconduce al forte impatto impresso sul territorio capitolino dal lavoro dell’artista di Johannesburg, ma perché si fa, come tutto il volume, sensore dell’attualità.
I monumenti, e concordo, attraverso Settis, con Musil, erano diventati sempre più, nella percezione collettiva, da simboli del potere, da polarità urbane dalla forte connotazione celebrativa e identitaria, a spazi neutrali, anonimi, muti e spesso incongrui con i ritmi, con il fluire della città contemporanea. Fatte, dunque, alcune importanti eccezioni, i monumenti sembravano aver perduto la funzione di senso, il rapporto di necessità con il contesto che li accoglieva. Sia che si trattasse di scultura o di un’opera architettonica sia di un’installazione o di un intervento site-specific, avevano smarrito, sovente, il rapporto fondante con il luogo e con la memoria del luogo (Gallerani 2002; De Marco 2002; De Marco 2020).
Ma se la solitudine del monumento costituisce un aspetto innegabile di molte realtà urbane condizionando, anche, la fruizione del cittadino, il marmo, la pietra e il bronzo non sono immutabili come siamo portati, spesso, a pensare (Bourriaud [1998] 2010; De Marco 2016; Lowe [2020] 2021). Al contrario, confermano ancora una volta, come la memoria sia sempre dinamica, come dimostrano le immagini che, sempre più di frequente, provengono dalla carta stampata, dai telegiornali e dal web e che raccontano di graffiti, di scarabocchi, di rovesciamenti di statue e monumenti legati al passato coloniale, schiavista e razziale di molti Paesi.
La caduta, il rovesciamento iconoclasta a cui sono, oggi, soggetti molti monumenti e statue del passato ne ribalta la percezione ormai consolidata facendoli diventare da luoghi silenti a luoghi della divisione e dello scontro sociale il cui ribaltamento e/o distruzione aggiunge nuovi strati di significato. L’abbattimento di simboli e personalità considerate fondanti mette in luce, proprio attraverso la furia della contestazione, come il punto di vista della storia sia disseminato di insidie, di strascichi irrisolti che non vanno ignorati, negati o rimossi ma riletti (Isnenghi 2004; Romano 2015; Nacci 2019).
Spetterà, pertanto, anche agli storici dell’arte fornire utili quanto preziose chiavi di lettura su questi avvenimenti (De Marco 2019 e De Marco 2020). Ciononostante, quella che era ritenuta opportunamente l’invisibilità del monumento, per tornare alle raffinate pagine di Settis che cita Musil, è spunto funzionale alle argomentazioni dell’archeologo perché gli permette di suggerire l’analogia con Roma, una città ricca di storia che stenta, oggi, a farsi notare perché incapace di recuperare, di attivare, una nuova progettualità.
Città eterna per antonomasia, Roma è “Roma-città” e “Roma-mondo”, per ricordare una definizione cara a Lotman, e come tale può essere paragonata solo a Gerusalemme, altro luogo simbolo, dal forte potere di fascinazione (Giardina, Vauchez 2000; Lotman 1985). Nel contesto romano, scrive Settis, nulla come Triumphs and Laments ha mostrato, di recente, una capacità di riattivare i meccanismi della memoria visuale, in una città sovraccarica di monumentalità e di storia, e forse proprio per questo, aggiungo, incline a non guardare, a non ricordare. Kentridge, al contrario, ci costringe a ricordare, a riflettere. Nella lunga sequenza disegnata sulle sponde del Tevere si volge, anche, al passato non appiattendolo in letture affrettate. L’artista, infatti, non banalizza perché attinge al tempo della storia, selezionando e prendendo posizione, offrendo più livelli di interpretazione e realizzando un intervento che, nonostante la sua voluta natura effimera, è destinato a durare.
Non un intervento calato dall’alto, dunque, ma un progetto accurato che ha stabilito un rapporto di necessità, di pertinenza con il luogo. Ciò paradossalmente proprio nell’essere anti-monumento. L’artista ci ha messo di fronte alla storia con un segno non invasivo, non inutilmente narcisistico ma rispettoso dell’ambiente, conciliando la transitorietà con il valore culturale della perennità. Kentridge, per concludere con le parole di Paul Éluard, ha dato forma, da grande artista qual è, a “le dur désir de durer”.
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