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La Tempesta, epilogo di Shakespeare, approda al Teatro del Giglio di Lucca, casa natale della compagnia Teatro Del Carretto, nell’adattamento di Giacomo Vezzani (anche regista dello spettacolo) e la supervisione artistica di Maria Grazia Cipriani.
In scena solo tre attori, che interpretano tutti i personaggi dell’intreccio narrativo, Teodoro Giuliani – Prospero, Antonio, Stefano – Elsa Bossi – Miranda, Ariel, Trinculo – Fabio Pappacena – nei ruoli di Caliban e Ferdinando, oltre a Sebastiano.
La musica, degli stessi Vezzani e Pappacena, con Luca Contini, accompagna tutta la rappresentazione, in una versione dove la dimensione onirica è protagonista: «siamo della stessa materia di cui sono fatti i sogni, e la nostra piccola vita è circondata da un sonno».
Apre la scena una ballata sui versi di John Donne, poeta contemporaneo del bardo, dolcemente cantata da Pappacena e Bossi fermi alle aste dei microfoni. Al centro appare, da dietro un sipario rosso, Prospero con il suo monologo più noto, recitato con la voce di un tuono: «il nostro spettacolo è finito». Così le parole tratte dall’epilogo danno inizio alla tempesta. Già in questo incipit è contenuto il capovolgimento dell’opera da parte del Carretto, a dichiarare fin da subito l’impossibilità di rappresentare il sogno di Prospero.
Il palco è coperto da una distesa di pagine sparse di antichi manoscritti. La scena è illuminata con luci a pioggia o di taglio con effetti di ombre sui volti, fino ad usare il lume fievole di candele. Così si palesa la magia, deus ex machina di tante opere shakespeariane, che tiene aperto il gioco teatrale, senza suggerire soluzioni all’enigma: è finzione o realtà ciò che vediamo? Possiamo chiamare realtà il meccanismo immaginifico del teatro?
Giuliani/Prospero è il padrone della scena, in mano stringe la bacchetta del direttore d’orchestra con cui concerta lo spettacolo orrendo del naufragio. Come un regista onnipotente, fa vivere, muovere e morire i propri personaggi, con il potere dell’immaginazione del dramaturg, ovvero dello stesso Shakespeare. Governa un’isola che non c’è con la magia, un purgatorio per i traditori, un Cocito di reminiscenza dantesca, dove giacciono riversi i Caini. Questo diventa l’isola per i nemici di Prospero, che tutti li raduna per trafiggerli con la lama della sua vendetta: Antonio, Sebastiano, il re di Napoli Alonzo e lo schiavo Caliban.
Ma le vicende ne La Tempesta si dissolvono in un perdono finale, un epilogo di pace. Shakespeare/Prospero con quest’opera dà il proprio congedo alle scene: «ora i miei incantesimi si sono tutti spenti». Ariel canta «on the bat’s back I do fly». Non è la morte la pace desiderata, come nell’Essere o non essere di Amleto. Il drammaturgo, ormai vecchio, sogna la possibilità del perdono nella vita che ha speso nel «progetto di dar piacere col teatro», capace questo forse di traghettarci verso il senso dell’esistenza, oltre le passioni del momento, oltre i tradimenti e il dolore.
Nonostante l’intera rappresentazione dai toni cupi e violenti faccia presagire una fine tragica, è interessante la soluzione registica di Vezzani per l’ultimo atto: lo stanco Prospero si ritira nel fondo palco, oltre il sipario a mezza scena che lo ha introdotto, seduto a terra. Davanti a sé ha dei piccoli burattini di creta bianca sostenuti da esili stecchi, ciascuno corrispondente ad un suo interlocutore nella trama. Avviene un rito di purificazione in cui Prospero, dopo tante tribolazioni si lava il viso con l’acqua di una bacinella e nel gocciolare di queste lacrime catartiche i lacci della vendetta sono dissolti, come un battesimo.
Densa di significati La Tempesta di Shakespeare trova un’inaspettata forza nell’adattamento del Carretto che costringe in soli tre attori i tanti personaggi creando degli accostamenti che ne amplificano le caratteristiche.
Quasi non ci accorgiamo dell’alternarsi tra Miranda e Ariel nell’interpretazione di Elsa Bossi: entrambe sono angeli eterei assoggettate al volere di Prospero con un desiderio di libertà: Miranda di innamorarsi e Ariel di volare via. Negli inserti cantati l’ottima voce di Elsa Bossi risuona acuta che siano i gorgoglii dello spiritello o l’incanto del sogno della fanciulla. Non c’è la volontà di distinguere i due personaggi nell’adattamento registico: Prospero chiama la figlia e risponde Ariel con la poesia della seconda scena del primo atto, canzone che fa innamorare la dolce Miranda e Ferdinando.
Altro essere magico al servizio di Prospero è Caliban, magistralmente interpretato a torso nudo da Fabio Pappacena, che usa la voce distorta dagli effetti di riverbero e dai suoni di percussioni, ricordandoci la ricerca vocale di Roberto Latini. Caliban, personaggio enigmatico, è il selvaggio indigeno, lo schiavo educato alla parola dai conquistadores Prospero e Miranda. «Mi avete insegnato la vostra lingua e ora so maledirvi». Freedom canta Caliban in un blues dal ritmo triste e dondolato, conducendo immediatamente la fantasia dello spettatore tra gli schiavi neri dei campi di cotone. Questa la scelta più azzeccata e coinvolgente dell’accompagnamento musicale dello spettacolo.
La scelta di Vezzani è di racchiudere nello stesso attore il violento Caliban, aggressore di Miranda, e l’innamorato Ferdinando che la fanciulla paragona ad un dio venerabile. Così l’amore irruento di Caliban è risolto nell’amore casto di Ferdinando: «Lui è Caliban» pronuncia Prospero, e il giovane si scaglia con un balzo togliendosi la giacca contro la figlia, dichiarando il suo unico rimorso di non aver «popolato l’isola di mille piccoli calibani». Le scene dei due personaggi sono mescolate con sapienza attraverso i passaggi d’identità in una confusione ricca di significati.
Ma l’accostamento più ardito operato ne La Tempesta del Carretto è tra Prospero e il fratello Antonio: Teodoro Giuliani è allo stesso tempo tradito e traditore, giustiziere e condannato. La voce dell’attore si fa melliflua nel personaggio di Antonio, per tornare solenne e potente in Prospero. Il rancore che dimora nell’animo del protagonista è verso se stesso: la guerra ruggente della tempesta artefatta si scaglia contro la sua stessa avidità. Il passaggio attraverso la tempesta consente una pacificazione interiore con se stesso rappresentata dall’epilogo, una possibilità di comprensione.
Nell’immaginazione purificatrice sta tutta l’opera. Attraverso il suggestivo linguaggio universale della musica il Teatro del Carretto ci restituisce La Tempesta di Shakespeare rinnovata di significati, carica del tradimento, del perdono, del bisogno di dialogo, di armonia e pace. Un messaggio quanto mai attuale.
«Nessun uomo è un’isola» John Donne